Ikea: buoni propositi, ma la realtà è ben diversa dal Report di sostenibilità
Sfogliando il Report di sostenibilità IKEA Italia del 2023 si rimane colpiti dai dati, dalle immagini e dalle frasi che restituiscono la fotografia di un luogo di lavoro ideale. Un ambiente intriso di valori migliori: cura per l’inclusività, attenzione per la parità di genere, politiche per la sostenibilità e la crescita dei co-worker (dipendenti in termini più nostrani), riduzione del gender-gap sia in riferimento ai profili professionali che dal punto di vista retributivo.
Immagini di dipendenti felici e sorridenti: questo è IKEA. Quantomeno, questo è quello che leggiamo nell’interessante e autoreferenziale documento.
IKEA ITALIA è un colosso del mobile che vanta un fatturato a nove zeri. Il bilancio 2023 si è chiuso con oltre 2 miliardi di euro di fatturato. La società impiega 7.871 lavoratori che al colosso svedese piace definire co-worker, per offrire all’esterno e ai suoi stessi dipendenti una parvenza di collaborazione e non di mera subordinazione.
Al di là del coloratissimo e ben realizzato documento, che ha il solo scopo di fornire al brand una veste luccicante, con nozioni e frasi piacevoli e di sicuro impatto, è bene capirci qualcosa di più e andare oltre ai numeri che spesso non raccontano la verità di un sistema che pur sempre tende ad un unico e solo scopo: il profitto.
In primis, non possiamo non dare la giusta attenzione al motto “creare una vita quotidiana migliore per la maggioranza delle persone” e questo verrebbe perseguito prendendosi cura delle persone e dell’ambiente. Pertanto, sarebbe altissima l’attenzione della società nel garantire il benessere nel luogo di lavoro incoraggiando i co-worker a prendersi cura del proprio benessere psico-fisico. Tutto ciò sarebbe realizzato mettendo a loro disposizione una serie di attività e iniziative.
Questo cita il report.
Questi buoni proposti sono davvero messi in pratica nei vari negozi dai manager che hanno la responsabilità di attuarli?
A noi non risulta.
Seppure, l’analisi fornita dagli story tellers impegnati nel report mette in primo piano il benessere dei dipendenti, la circostanza sembra non essere affatto al primo posto. Perlomeno, non sembra esserlo per la filiale di nostro interesse: Collegno (Torino).
Da diversi anni, infatti, la società si è resa responsabile di un comportamento che non intendiamo giustificare: disinteresse.
Vera e propria indifferenza nei confronti delle ingiustizie subite, in molteplici occasioni, da un lavoratore del sito torinese. Sono ben 15 gli anni in cui si sono susseguiti episodi spiacevoli che, nel tempo, sembrano prendere la vera e propria consistenza di condotte mobbizzanti. Queste perpetrate sia da parte dei dirigenti o superiori, sia in linea orizzontale da parte di colleghi. Comportamenti che sono diventati per il lavoratore una costante negli anni e che, seppure, sempre prontamente segnalati e denunciati ai propri responsabili non sono mai stati affrontati.
Forse perché ai danni di un rappresentante sindacale eletto tra le fila di un Sindacato, il nostro, ben lontano dalle logiche e prassi concertative? Oppure per le sue costanti e ripetute segnalazioni sulle pericolose condizioni di lavoro, soprattutto nel reparto della logistica?
Atteggiamenti sprezzanti, di vero e proprio disprezzo, alterchi, piccoli furti ai danni del lavoratore e scritte denigratorie apparse nelle bacheche comuni e, perfino, sulle comunicazioni aziendali. Tutto questo sempre sotto il poco attento e disinteressato occhio della direzione del personale che, pur informata dei fatti, non si è mai attivata anche solo con la diffusione di circolari, comunicati necessari a sensibilizzare e reprimere queste condotte illecite e sgradevoli.
Sul punto legge parla chiaro e non ammette interpretazioni. In particolare, l'art. 2087 del c.c. definisce che la responsabilità per tali azioni è da attribuire al datore di lavoro.
Questo disinteresse è ancor più dimostrato dal fatto che, nonostante la comunicazione dei nostri legali con cui hanno invitato i rappresentanti aziendali a prendere contatto per risolvere bonariamente la questione, a distanza di più di un mese, non è ancora pervenuta alcuna risposta.
“Coltiviamo BenEssere” è il titolo di un programma avviato nel 2022 dalla società svedese in favore dei propri co-worker. Quale benessere? Quello di diventare oggetto di azioni mobbizzanti? È così che si vuole coltivare il benessere?
Proclami. Solo in questo si riducono le articolate frasi contenute nel report. Forse principi programmatici che poco o nulla hanno a che vedere con la realtà lavorativa.
La disamina dell’edulcorato report ci porta ad un’altra questione che poco si accosta all’immagine felice dei lavoratori tra gli scaffali dei negozi, che sono il solo risultato di shooting ben orchestrati: precarietà e part time obbligatori.
Leggendo ancora una volta i dati riportati dalla società, riscontriamo che l’utilizzo dei contratti a tempo parziale è una costante. Il documento riporta dati interessanti, forse preoccupanti.
Nel 2022 (report precedente) su 7.580 dipendenti, ben 4.915 erano assunti con contratto part time. Il 64% della forza lavoro impiegata in Italia aveva un contratto a tempo parziale e quindi una retribuzione riparametrata.
Nel 2023, invece, il report non restituisce più dati precisi, ma solo l’immagine di una vite con numeri e immagini di difficile comprensione che dovrebbero significare una differente percentuale di utilizzo dei contratti a tempo parziale. Comunque, sempre prossima al 50% (così dalla lettura delle viti che ha preso il posto dei numeri di più chiara interpretazione).
La società si nasconde dietro ad un “il ricorso a contratti part-time che consente di andare incontro alle esigenze del lavoratore e dell’azienda.”
Quali sarebbero le esigenze di un lavoratore nel rimanere per 15 anni in una condizione di precarietà e povertà retributiva? In una situazione economica di inflazione galoppante e perdita di potere d’acquisto dei salari, vogliono farci credere che sia il lavoratore a tenersi stretto un contratto da 4 ore al giorno e 20 settimanali?
No, così non è. La realtà è quella di lavoratori che da anni richiedono e implorano la società di concedere aumenti orari e stabilizzazioni. Il colosso preferisce fare largo uso (e abuso) dei contatti part time che, come già detto, raggiunge percentuali tra il 50 e il 64%. Stessa sorte è riservata ai lavoratori “non dipendenti” che nel 2023 ha visto l’utilizzo di 160 stagisti su un totale di 223 lavoratori.
A noi più che i numeri di un successo sembrano i numeri di un processo di precarizzazione e impoverimento contrattuale che costringe migliaia di lavoratori ad accettare contratti di assunzione limitati a poche ore al giorno e con retribuzioni irrisorie.
Probabilmente, i buoni intenti della casa madre andrebbero supervisionati nei vari negozi e nei diversi paesi e trasmessi ai propri manager visto che sembra siano impegnati in tutt’altro. Esempio emblematico in Francia è il caso giudiziario dello spionaggio che nel 2021 ha travolto Ikea e visto condannare ben 15 persone, tra alti dirigenti, agenti di polizia e investigatori privati, tutti coinvolti nel dossieraggio di centinaia di persone tra rappresentanti sindacali, dipendenti e clienti insoddisfatti. La società ha patteggiato pagando una sanzione di oltre 1 milione di euro a causa della condotta colposa di 10 top manager, dell’amministratore delegato in Francia e di suoi sottoposti, tra cui un manager di rilievo che ha confessato la spesa annuale superiore a 530'000 euro per tale pratica criminosa.
Dobbiamo pensare che la responsabilità di queste azioni sia da attribuire alla società o ai manager che avevano l’onere di gestire le attività commerciali Ikea in Francia?
Forse è il caso che la società riveda il proprio report per il prossimo anno e che rifletta attentamente sui processi di controllo, di sostegno, di promozione e garanzia della qualità di vita all’interno dei propri siti che sembrano essere diversi rispetto al quadro prospettato.
È inaccettabile che una società che da sempre fa della sensibilità, sostenibilità e qualità dei processi di lavorazione il suo vessillo possa rivelarsi sorda alle richieste di supporto da parte di un dipendente. Un lavoratore che per farsi ascoltare ha dovuto infine ricorrere alle diffide, alle querele e ad un imminente contenzioso.
Dov’è in questo caso la grande famiglia felice che tutela i propri dipendenti? Perché nessun preposto, nessun responsabile delle risorse umane ha voluto interessarsi alla vicenda e utilizzare gli strumenti propri della gestione per richiamare l’intero gruppo di lavoro ad una maggiore sensibilità?
Eppure, anche l'art. 34 - Mobbing - del CCNL GDO Federdistribuzione è molto chiaro sul punto. Ciononostante, nessuna azione è stata intrapresa.
Erano forse troppo occupati a amministrare un fatturato miliardario più che ad assicurarsi che il benessere dei propri dipendenti fosse reale e non solo programmatico?
Per noi questo report è solo carta straccia.
USB Lavoro Privato - Commercio