TURCHIA: IL CENTRO COMMERCIALE DELLA DISCORDIA

La costruzione di un centro commerciale catalizza i motivi di protesta di un intero popolo… sarà un caso?

Roma -

Il 30 maggio oltre 10.000 persone si sono ritrovate nel parco Gezi di piazza Taksim, che il governo vuole distruggere, per gridare "Yeterli", basta, al liberismo sfrenato e a una idea distorta di progresso. La costruzione di un centro commerciale nell’ultimo polmone verde della città ha causato l’esplosione del più grande movimento di disobbedienza civile mai visto in Turchia, malgrado l’uso massiccio di gas, lacrimogeni, idranti e manganelli fatto dalla polizia.

 

Il 30 maggio l’ingranaggio distorto e malato si è inceppato, uomini e donne di tutte le età si sono ritrovatati in questo parco con i sui pioppi settantenni per gridare, ballare, riappropriarsi dello spazio pubblico di una città che nel giro di dieci anni è diventata la vetrina di troppe multinazionali. Sogni, progetti, vita.. musica, striscioni, slogan.. occhi di giovani e di anziani che si legano indissolubilmente alla storia di una Turchia così complessa, nostalgica e forte. Gli abitanti si sono riversati in piazza con tutta la loro indignazione per esercitare il diritto a riprendersi la città, per chiedere in modo legittimo di ripensare e cambiare questo spazio urbano sociale.

 

Il governo dell’AKP, ha accelerato la nuova progettazione di Istanbul, una delle città più grandi del mondo, in conformità alla sua agenda neoliberale ambiziosa e implacabile. Il governo ha quindi cominciato a realizzare enormi progetti, trasformando luoghi pubblici urbani che i cittadini comuni usano molto frequentemente, in lotti di terra dove dovranno essere costruiti hotel lussuosi, abitazioni, centri commerciali.

 

L’inizio della protesta, che si è estesa in tutto il paese, fu l’albero (il caso delle 500 piante del parco Gezi, polmone verde della megalopoli sul Bosforo). Poi è stata la birra (si è propagata in tutta la nazione contro il divieto sugli alcolici). Ma in fondo il nocciolo della questione, l’essenza della protesta delle donne e degli uomini turchi è la libertà. Colpisce che il “CENTRO” della protesta sia “COMMERCIALE”.

 

La politica di Istanbul è la stessa di tutti i governi capitalisti e punta a ridisegnare i costumi sociali, le condizioni di lavoro e la struttura architettonica della nostre città in funzione ed al servizio del capitale. Le nostre piazze, attraverso le quali si connetteva il tessuto sociale della città, sono via via sostituite dai centri commerciali, nuovo modello di “moderna piazza” priva di qualsiasi scambio umano che non sia mediato dal denaro, autentici non luoghi dove i soggetti sociali si incontrano senza interagire, dove ogni cittadino può ingannevolmente sentirsi, ricco, consumatore ma dove in realtà è prigioniero inconsapevole, dove campeggiano i “nuovi schiavi” del lavoro e del consumo. Nelle nostre città abbiamo centinaia di giganteschi centri commerciali, spesso questi “Business Park” sono frutti avvelenati di compensazioni edilizie in cui vengono previsti centinaia di migliaia di metri cubi destinati alla costruzione di ristoranti, bar, negozi e case private.

 

Il capitale drena il territorio delle nostre città facendo profitti ma in cambio non rende alcun valore aggiunto in termini di abitare e di occupazione. Nei processi disgregativi messi in atto dal capitale il settore del commercio è all’avanguardia, in un centro commerciare ci sono circa 2000 lavoratori che vedono applicati centinaia di contratti diversi, retribuzioni diverse, diritti diversi, ma che in realtà svolgono più o meno le stesse mansioni. L’organizzazione del lavoro in un centro commerciale rispecchia quella delle istituzioni totali (carceri, manicomi, caserme), passa cioè per l’organizzazione formale e centralmente amministrata del luogo e delle sue dinamiche interne ed il controllo operato dall’alto sui soggetti-membri. Al centro del dibattito quattro questioni di fondo: salario, part-time, discrezionalità e libertà. Nelle multinazionali del commercio un lavoratore su due ha un contratto part-time ma non dice che il part-time non è quasi mai una libera scelta dei lavoratori, dei quali l’80% è di sesso femminile, ma è l’unica possibilità che viene offerta per essere assunti. La possibilità di migliorare questa condizione è remota e spesso non passa attraverso il merito o l’anzianità, il risultato è un salario che si aggira sui 700 euro mensili. Chi fa il part-time ha bisogno di svolgere una seconda occupazione per mettere insieme un salario appena sufficiente ma questo è reso impossibile dall’organizzazione del lavoro messa in atto. I turni dei lavoratori spesso vengono esposti il venerdì o il sabato della settimana precedente e variano in continuazione a seconda delle esigenze dell’azienda e non nel rispetto dei tempi di vita e della cura delle famiglie. La speranza di poter ottenere incrementi di orario costituisce uno degli strumenti preferiti dalle aziende per mantenere sotto ricatto chi lavora. Chi vive la realtà di centro commerciale sa benissimo che è difficoltoso anche poter andare in bagno ed è spesso necessario chiedere il permesso, l’esigenza fisiologica viene considerata parte integrante dell’organizzazione del lavoro e del potere datoriale. La repressione del dissenso sindacale nei centri commerciali del terzo millennio ricalca quella del secolo scorso nelle fabbriche, ha la stessa natura violenta ma dispone di tecnologie di controllo evolute, rendendo difficile organizzare il dissenso dei lavoratori.

 

Dietro questo proliferare di centri commerciali si nasconde spesso l’attività speculativa di grandi gruppi finanziari e la presunta infiltrazione del potere mafioso. La Corte dei Conti ha pubblicato una relazione dedicata alla criminalità organizzata che non ha avuto la dovuta rilevanza sui giornali e alla televisione. Tale relazione rileva che centri commerciali e case sono le nuove frontiere delle mafie. Infatti, le attività economiche in cui la criminalità organizzata investe con maggior frequenza sono quelle “edilizie, immobiliari, commerciali e la grande distribuzione”. Il commercio, in particolare il franchising che coinvolge le grandi marche, consente alle organizzazioni criminali di procedere all’apertura di esercizi commerciali spesso a nome di soggetti terzi compiacenti non immediatamente riconducibili ad esponenti della criminalità. In questo modo, le mafie riescono a controllare l’intero processo che va dalla costruzione delle strutture al loro sfruttamento con la vendita dei beni, permettendo il riciclaggio di denaro proveniente da attività illecite. L’infiltrazione della criminalità organizzata nell’attività edilizia e commerciale è favorita anche da una scorretta progettazione urbanistica che si fonda su un modello di sviluppo incontrollato. Il prodotto finale di questo genere di progettazione sono le tante “piazza Taksim” presenti nelle nostre città, ovvero cemento che sostituisce spazi verdi.

 

Non di secondo piano è il problema del reddito: le grandi centrali di acquisto che riforniscono le catene della Grande Distribuzione Organizzata (GDO) dovrebbero fungere da strumento di «razionalizzazione e programmazione delle forniture», in realtà sono un vero e proprio cartello dei prezzi che scarica i suoi effetti sul salario e sulle condizioni di lavoro (in tutto il ciclo dalla produzione, al trasporto fino alla distribuzione) e sui prezzi al consumo. A conferma di ciò l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha deciso di volerci vedere più chiaro sulla dinamica di formazione dei prezzi come sui rapporti e le condizioni contrattuali praticate dalle centrali di acquisto nei confronti delle imprese che forniscono i prodotti. Semplificando: la distorsione all’interno della filiera agro alimentare crea sperequazione e aberrazioni tangibili con un sicuro beneficio economico solo per le multinazionali, mentre gli agricoltori hanno visto diminuire i loro margini al punto tale che sempre più spesso non gli conviene più raccogliere ad esempio la frutta, dal momento che il costo del lavoro della sola raccolta è già superiore per unità di prodotto al prezzo pagato loro dalle centrali di acquisto; si sviluppano forme di caporalato che portano ai casi di Rosarno in Calabria o di Nardò in Puglia, dove migliaia di migranti sono resi schiavi negli agrumeti. Il risultato di questa filiera agroalimentare dominata dalla GDO è un prezzo di acquisto al consumo portato alle stelle, con ripercussioni sui cittadini che pagano l’ennesimo inaccettabile prezzo della crisi.

 

Altro problema rilevante è la completa deregolamentazione degli orari delle attività commerciali che non ha portato alla crescita economica, ma solo all’inasprirsi di una crisi che già da diverso tempo sta affliggendo il commercio, aggiungendo un ennesimo tassello al puzzle di precarietà, basso salario, difficoltà nella vita di relazione e degli ormai pochissimi diritti per oltre due milioni lavoratori del settore. La crisi del commercio non ha nessun collegamento con le aperture e la liberalizzazione degli orari ma nasce dalla mancanza di reddito diretto ed indiretto dei consumatori. In Italia le mirabolanti promesse di crescita occupazionale all’indomani del decreto Monti si stanno traducendo oggi in chiusure di migliaia di imprese piccole e grandi, che non reggono la concorrenza. Le nuove assunzioni nella Grande Distribuzione Organizzata sono rimaste lettera morta e si sono tradotte in aumento di carichi di lavoro degli occupati e già precarizzati lavoratori dei centri commerciali. Il suddetto aumento dei carichi di lavoro e quello del nastro orario per far fronte alle liberalizzazioni non si è tradotto in stabilizzazione dei rapporti precari o in crescita salariale. I lavoratori della GDO hanno visto aumentare la flessibilità e la precarietà e nel contempo le aziende ed i sindacati concertativi hanno “limato” le maggiorazioni festive e domenicali attraverso macchiavellici accordi a perdere. Insomma, lavorare di più per guadagnare di meno.

 

Non ci coglie di sorpresa che la difesa di un parco contro la speculazione commerciale si sia trasformata in resistenza. Nelle piazze vecchie e nuove si incontra la Polis e nell’antica Grecia la piazza – Agorà - era il luogo simbolo della democrazia del paese, dove si riuniva l’assemblea per discutere e prendere le decisioni politiche. Il popolo Turco ha rinchiuso l'individualismo in nome di una solidarietà pronta a resistere, per decidere come vuole e se vuole il “progresso”. Il seme è germogliato e le donne e gli uomini turchi stanno riscrivendo la loro storia.